Cinzia Canneri

1) Cambiano gli strumenti, cambiano i supporti, cambiano le modalità di fruizione, di diffusione, ma si evolvono anche coloro che fanno fotografia. Ad oggi conta ancora una formazione fotografica ed umana per fare fotografia?

Ho iniziato a fare fotografia quando si utilizzava ancora l’analogico, più precisamente negli ultimi anni di vita dell’analogico, era la fine degli anni ’90. Nel cambio con il digitale mi bloccai per poi riniziare dopo molti anni. Quello che mi manca del passato è il tempo di attesa che intercorreva tra lo scatto e la prima visualizzazione del fotogramma in pellicola, che era quasi un tempo di gestazione. Da sempre, tuttavia, nonostante le evoluzioni tecniche che sono avvenute in campo fotografico e quindi anche nel mestiere di fotografo, la costante che permane è che per fare una buona fotografia è necessaria una formazione umana di noi come fotografi. Una fotografia funziona non quando è tecnicamente bella, ma quando è autentica e per esserlo il fotografo si deve spogliare di tutte le sue velleità, sovrastrutture, ambizioni, per arrivare ad agire solo mosso dall’amore. Se ho una buona foto lo avverto già dal momento dello scatto, anzi spesso mi lascio, come negli anni dell’analogico, del tempo prima di guardare l’immagine. L’assaporo, me la previsualizzo, cerco di ricordare quell’istante in cui in modo sincronico io e l’altro eravamo un unico sguardo. Con altro non intendo solo una persona, ma anche un paesaggio o un evento. Provo sempre pudore difronte alle mie foto, perché svelano chi sono. Molte volte lo fanno anche in modo inaspettato, perturbante o doloroso, è questa l’azione umana che svolge la fotografia.

 

2) Nei tuoi lavori come “Muta Il cielo”, che è stato in mostra al WSP Photography, o “Come due ali” ma anche in “Annita si scrive con due n” è molto presente il quotidiano dei soggetti. La semplicità è sempre il modo migliore per raccontare alcune storie?

Più che la semplicità per me lo è l’intimità. Non riesco a parlare di una questione sociale se non l’affronto a partire dalla sua dimensione di ricaduta nella vita quotidiana delle persone o di una comunità. Sono interessata al reportage che richiede una relazione e un convivere con la storia che racconto. “Annita si scrive con due n” è stato il mio primo lavoro fotografico di tanti anni fa; fotografai mia nonna solo all’interno della sua casa, cercando di ripercorre un’autobiografia emotiva della mia famiglia attraverso di lei. Oggi mi sento anche distante da quel tipo di fotografia, ma non alla ricerca che già allora adottai e che richiese lo stare in un luogo circoscritto ad attendere di vedere qualcosa della mia famiglia a me ignoto e non ancora decifrato.

I progetti “Come due ali” e “Muta il cielo” affrontano invece due tematiche sociali: uno relativo alle vittime dell’amianto e l’altro al viaggio delle donne eritree che si blocca nelle città africane. Anche in questi due lavori, comunque, ho raccontato delle questioni sociali attraverso le storie delle persone, con cui ho condiviso momenti celebrativi, di lotta, di gioia e di vita quotidiana, spesso vivendo nelle loro stesse case come ospite. Solo quando si è parte di una storia la si può raccontare.

 

3) Sintetizzando un progetto fotografico passa da 3 fasi fondamentali: l’idea, la realizzazione, l’editing. Un lavoro come “Muta il Cielo” quanto si è evoluto, modificato, rivoluzionato durante queste fasi?

Totalmente. In questo sono follemente aperta al cambiamento: so archiviare anche anni di lavoro, se ritengo che devo cambiare direzione e lo so fare, perché considero che ciò che archivio non è disperso, ma contenuto nella nuova direzione intrapresa. Sto lavorando al progetto delle donne eritree da tre anni e l’ho iniziato andando quasi una volta a settimana in alcuni centri di accoglienza di Roma, poi l’ho proseguito in Egitto, in Etiopia, in Israele e quest’anno in Eritrea. Durante il mio lavorare su questo progetto ho compreso che volevo parlare non del viaggio in generale di immigrazione delle donne eritree, ma del viaggio che si blocca nelle città africane, cioè di quel viaggio delle donne eritree che non si compie, ma si disperde. Ho così tolto le immagini di Roma (un anno di lavoro) e del viaggio in Israele. E’ stato come vivere un lutto, perché c’erano molte foto a cui ero legata, ma l’editing ha seguito una scelta progettuale e quindi ha eleminato foto buone che non avevano più un loro significato. Per me è difficile che una singola foto mi appartenga, amo una foto prevalentemente quando è l’incastro di un racconto ampio e mi conduce a quella storia.

 

4) Se in questo momento ti assegnassero la realizzazione di un lavoro fotografico sulle donne italiane quali sarebbero le prime azioni che compiresti? Quale aspetto vorresti narrare?

La prima azione sarebbe quella di rivolgermi delle domande a partire dalla mia storia, dalle donne che mi sono vicine e da quelle che ho perso. Mi domanderei chi sono le donne che amerei ricordare, conoscere e quali storie vorrei scoprire per costruirne una testimonianza. Sono molto attratta dalla psicologia e dalla complessità delle donne che hanno avuto per lo più una storia sociale sommersa. Provengo da una famiglia semplice, le donne di casa mia erano delle casalinghe e attuavano una loro ribellione tacita e ingenua, quanto tenace ed efficace. Si sono mosse, più o meno consapevolmente, all’unisono per tramandare un’evoluzione e pretendere per le loro figlie la libertà che gli era stata negata. Partirei da questa generazione di donne della cultura contadina per arrivare a quella di oggi dove una Carola Rackete diventa una condottiera non dei 42 migranti della Sea Watch, almeno non solo di loro, ma di un nuovo pensiero, quello della disubbidienza per fini di giustizia sociale. Attualmente sono in vita generazioni di donne con storie totalmente diverse, ma forse connesse da un’eredità che le unisce le une alle altre. La fotografia mi offre l’inesauribile ricchezza che raccontando gli altri scopro qualcosa di me stessa.

 

Cinzia Canneri è una fotografa documentarista toscana. Ha frequentato la WSP Masterclass e con il suo lavoro, “Muta il cielo”, ha esposto presso WSP Photography nel 2018.
Intervista a cura di Massimiliano Tempesta – WSP Photography